Reincarnazioni testimoniate

Reincarnazioni: un mistero che ci accompagna ovunque, con la domanda ricorrente che ogni persona si domanda: la morte è la fine di tutto? La risposta alla domanda quindi, esiste e si chiama reincarnazione.  Qui si riporta testimonianza di tali eventi.
La piccola Romy Crees confidò in maniera spontanea i suoi ricordi dell’uomo che lei insisteva di essere precedentemente stata, con osservazioni sparse mischiate alle chiacchiere sul mondo intorno a lei. Non appena aveva potuto parlare, la piccola ricciuta bimbetta di Des Moines, Iowa, disse di essere Joe Williams, marito di Sheila e padre di tre bambini. Più e più volte espresso il desiderio di andare a casa. Poi continuò descrivendo la sua morte in un incidente in moto, una descrizione così vivida da scuotere i suoi genitori al punto di prendere sul serio quello che inizialmente avevano respinto come sciocchezze prodotte dalla fantasia infantile.
“Ho paura delle moto” disse Romy.
La bimba di tre anni aveva ricordi così persistenti degli avvenimenti e della personalità di quest’altra, misteriosa vita, che alla fine i genitori acconsentirono a incontrare a casa loro Hemendra Banerjee, un investigatore professionista della memoria extracerebrale. Accompagnato da sua moglie Margit, che collaborava alla ricerca, e da due giornalisti del mensile svedese “Allers”, Banerjee arrivò a casa dei Crees in un freddo giorno d’inverno del 1981. Con i ricci saltellanti intorno al viso roseo, Romy, in un vestito blu a fiori, era intenta a giocare sullo spesso tappeto del soggiorno. Un’immagine della Madonna della Chiesa cattolica romana sorrideva dal muro mentre Bonnie Crees, 28 anni, raccontava come aveva cercato di distrarre la figlia con la speranza di deviare questi ricordi disturbanti e anche di incoraggiare conversazioni più normali ma l’altra vita continuava intromettersi…
“Andavo a scuola a Charles City” diceva Romy.
“Vivevo in una casa di mattoni rossi e ho sposato Sheila e abbiamo avuto dei bambini, ma allora non vivevamo a Charles City…”
“Mia madre ha male a una gamba,qui” diceva, indicando la sua gamba destra.
“Il nome di mamma Williams è Louise. Non l’ho vista per molto tempo.”
“Quando vivevo a casa ci fu un incendio. è stata colpa mia, ma la mamma gettò acqua sul fuoco. Si bruciò le mani.”
La faccia di Romy si illuminò d’interesse quando Bonnie Crees mise in relazione le preoccupazioni della figlia con Joe Williams e Charles City..
“Voglio andare a Charles City” dichiarò.
“Devo dire a mamma Williams che va tutto bene”.
è quindi i Banerjee, i giornalisti svedesi, il dottore Greg States, uno specialista di Des Moines, e Barry Crees partirono con Romy per Charles City, una città di 8000 abitanti, distante circa 220 km. Durante l’intero viaggio Romy fui irrequieta ed eccitabile, e mentre Charles City si avvicinava – senza una parola da parte di nessuno, quanto all’imminenza della loro destinazione – scavalcò il sedile posteriore per andare a infilarsi fra il dottor States e Hemendra Banerjee.
“Dobbiamo comprare dei fiori” disse.
“Mamma Williams adora i fiori blu. E quando arriviamo lì non possiamo entrare dalla porta principale, dobbiamo girare l’angolo e arrivare alla porta di mezzo”.
Siccome Romy non era sicura dell’indirizzo della signora Williams in questa città moderna, con chiese e bungalow sistemati fra campi estesi, vicino al confine con il Minnesota, il gruppo consultò l’elenco telefonico. Arrivarono presto non ha una casa di mattoni rossi, come erano stati portati a pensare dalle precedenti affermazioni di Romy, ma un bungalow bianco alla periferia della città.
Lì, Romy saltò fuori dalla macchina e tirò con impazienza Banerjee verso il vialetto che conduceva alla porta principale e a un cartello con la scritta: “per favore usare la porta sul retro”.
Inizialmente nessuno rispose campanello, ma alla fine rapporto venne stancamente aperta da un’anziana donna che si appoggiava a grucce metalliche. Così come la sua profezia sulla porta principale, le parole di Romy sul “male a una gamba” erano esatte, perché intorno alla gamba destra della donna – che era davvero Louise Williams – c’era una stretta fasciatura. La signora Williams, però, era in procinto di andare dal dottore e non volle parlare con il gruppo né ascoltare le storie. Chiuse la porta, e gli occhi di Romy si riempirono di lacrime.
Romy, il padre e i giornalisti svedesi ritornarono un’ora più tardi e vennero ricevuti in casa. Ci fu un’immediata sintonia fra la bambina e la vecchia signora e ci furono baci abbracci quando la signora Williams accettò e scartò i fiori regalati da Romy. Confusa dei visitatori e stupita dei fiori scelti da Romy, la signora Williams rivelò che l’ultimo regalo fattole dal figlio era stato mazzolino di fiori blu. Fu ancor più stupita quando Barry Crees, che stava a sua volta lottando con la propria incredulità, riferì i ricordi della figlioletta sulla famiglia Williams.
“Dove ha avuto tutte queste informazioni questa ragazzina?” volle sapere la signora Williams.
“Io non conosco voi né nessun altro a Des Moines”.
La signora sessantaseienne spiegò poi perché viveva in un bungalow bianco e perché la comunità era parsa strana a Romy, nonostante la sua inquietante familiarità:
“La nostra casa era di mattoni rossi, ma venne distrutta da un tremendo tornado che ha danneggiato gran parte di Charles City dieci anni fa. Joe ci ha aiutati a costruire questa casa e ha insistito perché tenessimo la porta principale chiusa in inverno”.
La signora Williams interruppe la sua narrazione per trascinarsi nell’altra stanza e Romy si affrettò dietro di lei. Più tardi ritornarono per mano. La piccola Romy sembrava cercare di sostenere l’anziana donna, che stringeva una fotografia incorniciata di Joe, Sheila e i bambini scattata il Natale precedente all’incidente.
“Li ha riconosciuti” mormora la signora Williams, incredula.
“Li ha riconosciuti!”
Il matrimonio di Joe e Sheila, i tre bambini che ne nacquero, i nomi di altri parenti, l’incidente del 1975 vicino a Chicago in cui Joe e Sheila persero la vita, l’incendio nella casa in cui la signora Williams si bruciò le mani: questi e altri dettagli menzionati da Romy vennero tutti confermati. Si rivelò esatta anche la sua precisa descrizione delle lesioni riportate nel fatale incidente. Nata nel 1937, Joe Williams, morto due anni prima della nascita di Romy era il penultimo nato di sette figli.
Il caso di Romy Crees e lo studio meglio documentato nell’archivio di Banerjee e, secondo l’investigatore, dimostra che la reincarnazione è reale.
Ma in quanto devoti cattolici, i genitori di Romy e Louise Williams non vennero persuasi ad accettare quest’idea.
“Non so come spiegarlo” sospirò Bonnie Crees, “ma so che mia figlia non sta mentendo”.

Il rimpianto ardente delle vite passate
Romy è solo una delle centinaia di bambini in ogni parte del mondo che parlano loquacemente, accuratamente e con ferma convinzione delle loro vite precedenti, che sono state storicamente verificate. Nella maggior parte dei casi questi testimoni ingenui dando voce ai loro ricordi ha un’età compresa fra i due e i cinque anni, raccontano, di solito, vite terminate in modo brusco e violento. Borbottando distrattamente o supplicando di essere ascoltati, usano frasi come ” quando ero grande”, e sono noti per brontolare a causa dei limiti imposti dal loro piccolo corpo, e anche per parlare in maniera risentita perché non sono più dello stesso sesso di prima. Spesso si struggono per la perduta compagnia di un marito, o di una moglie, di un figlio o di una figlia. Dell’esistenza precedente desiderano ardentemente cibo, vestiti e stili di vita, a volte anche alcol, droga e tabacco. Soffrono di fobie che possono essere collegate direttamente con la loro morte inaspettata: coltelli affilati, magari, o veicoli a motore, o ad acqua. Tuttavia questi bimbi hanno poca speranza di neutralizzare tali potenti impulsi perché raramente vengono incoraggiati a far conoscere i loro ricordi di una vita passata. In Occidente, i genitori tendono trascurare e distogliere l’attenzione da quelle che considerano divagazioni senza senso, mentre in oriente c’è una superstizione secondo cui il fatto di chi ricorda una vita precedente è di morire giovane. In India, nell’Asia meridionale e in Turchia, è comportamento comune che i genitori reagiscano riempiendo la bocca dei figli di sporcizia o di sapone.
L’impiegato delle ferrovie B. Ram Ghulam Kapoor era troppo sbalordito per prendere il detersivo per i piatti quando suo figlio di cinque anni, Bishen Chand, si lanciò in una conversazione sul sesso da uomo a uomo.
“Papà, perché non hai un amante? Ne avresti un grande piacere.”
Cercando di nascondere lo stupore, il padre domandò con calma:
“Che piacere figlio mio?”
E Bishen rispose:
“Godresti la fragranza dei suoi capelli e proveresti molta gioia dalla sua compagnia”.
Si scoprì che i ricordi di Bishen, registrati a Bareilly, Utar Pradesh, in India, nella metà degli anni 20 del novecento, corrispondevano alla vita di Laxmi Narain, morto nel 1918 all’età di 32 anni a Shahjahanpur, Uttar Pradesh. Figlio unico di un facoltoso proprietario terriero, Laxmi si era smodatamente dato il cibo, e vestiti, alle donne, all’alcol e aveva amato una prostituta di nome Padma.
Quando Bishen aveva 23 anni e lavorava all’ufficio delle imposte di Tenakpore, Padma, all’epoca cinquantaduenne varcò la soglia dell’ufficio. Bishen la riconobbe subito e fu a tal punto sopraffatto dall’emozione che svenne. Quella sera si diresse a casa di Padma con l’intenzione di rinnovare la relazione avuta da Laxmi più di 26 anni prima. Benché astemio, Bishen si recò da Padma con una bottiglia di vino, come avrebbe fatto Laxmi. La donna non fu contenta: ruppe la bottiglia di vino e lo ricacciò nella notte dicendo: “sono una donna vecchia come tua madre”.
Nel 1971 Bishen disse il dottore Ian Stevenson, psichiatra dell’Università della Virginia, di non aver mai bevuto alcol prima o dopo quell’occasione. Ma il desiderio di abbandonare la astinenza dagli alcolici era dovuto all’intensità del suo ridestato affetto per Padma.

Mi ha ucciso
Ci sono comunque eccezioni alla tenerezza che la maggior parte dei soggetti sente per la personalità avuta nella vita passata, e nessuna è più drammatica del modo in cui Reena Gupta reagì nei confronti dell’ultimo uomo della sua vita. Quando Reena aveva meno di tre anni, disse la nonna:
“Ho un gharwala (marito). Il mio gharwala era un uomo malvagio, e mi ha ucciso”.
Il comportamento di Reena era bizzarro come le sue parole. Andava con passi incerti sul balcone della sua casa di Nuova Delhi e, scrutando, sempre scrutando fissava la folla in strada. Quando era in macchina con la famiglia, stava sempre a guardare fuori alla ricerca di qualcuno.
“Cerco il mio gharwala i miei bambini” diceva a chiunque le chiedesse cosa stava facendo.
La stranezza di Reena divenne esasperante quando cominciò a criticare il modo in cui la madre cucinava e faceva le faccende domestiche. Non molto tempo prima Reena, che sosteneva di avere quattro figli suoi, si era allontanata durante un giro al mercato per spiegare più tardi a sua madre, molto preoccupata, di aver seguito una donna che ” veniva a casa mia”. La connessione con la vita passata non scompariva e, con fastidio della madre, la ragazzina continuava a esprimere affetto per i suoi figli, così come essere angosciata per la forzata separazione da loro. Fortunatamente, la spiegazione di questa doppia vita richiedeva stava per arrivare. Vijendra Kaur, un’insegnante, collega della madre di Reena, aveva sentito parlare di una famiglia sikh che viveva in un’altra parte della città, le cui sofferenze parevano combaciare con la storia di Reena. E sue ricerche, condotte a cinque anni dopo che Reena aveva parlato per la prima volta della sua vita passata, condussero alla porta di Sardar Kishan Singh e di sua moglie, genitori e della defunta Gurdeep Kaur, uccisa dal marito e il 2 giugno 1961. Incuriosita da un possibile legame con la figlia morta, la coppia telefonò alla famiglia Gupta. Reena dormiva profondamente, ma quando si svegliò, guardò i volti dei Singh, la sua faccia si aprì in un sorriso e disse: “sono i miei genitori”.
Il giorno seguente i Singh portarono Swarna, la sorella più piccola di Gurdeep, a vedere Reena, che la chiamò immediatamente con il suo soprannome, Sarno. In India l’usanza stabilisce che i regali in denaro siano accettati solo da una persona più giovane di chi fa il dono. Quindi, quando Swarna le offrì due rupie, la risposta di Reena fu particolarmente rivelatrice.
“Come posso prendere denaro da Sarno? Lei è più giovani di me.”
Più tardi è Reena fece visita alla casa di Kishan Singh e si riconobbe in una fotografia raffigurante la defunta Gurdeep Kaur.
Fu solo questione di tempo prima che Surjeet Singh, il marito e assassino di Gurdeep, venisse a conoscere le affermazioni di Reena e forse indotto a farle visita. Reena, però, non aveva desiderio di vederlo.
“Mi ucciderà di nuovo” diceva chiaramente non entusiasta del fatto che Surjeet Singh, una volta condannata al carcere a vita per l’assassinio della moglie e del cognato, fosse stato liberato dopo 10 anni per buona condotta. Quando si incontrarono nel 1975, Reena aveva nove anni e nessuna buona condotta al mondo sarebbe stata sufficiente a placare le sue paure. Solo con la massima riluttanza – appollaiata scomodamente sul bracciolo della sedia di Surjeet Singh – si sedette con l’uomo che lei era convinta fosse il suo assassino. Infatti, quando Surjeet Singh cercò di abbracciarla, si staccò da lui. Ma quando Reena incontrò i quattro figli di Gurdeep Kaur tre bambine e un bambino – li salutò con tanta gioia come aveva fatto con la madre, il padre e la sorella di Gurdeep.

Riconoscimento emotivo spontaneo
I bambini sono senza dubbio i migliori testimoni della reincarnazione: non sono ancora stati distratti dallo sbarramento di informazioni e dagli affollati ricordi degli anni successivi; la mancanza di un’esperienza terrena di rendere, se non incorruttibili, molto meno inclini all’inganno degli adulti; e, anche se non si può mai escludere la manipolazione dei genitori, è praticamente impossibile falsificare la forte identificazione che provano nei confronti della personalità precedente, o il forte attaccamento emotivo espresso verso amici e parenti della vita precedente che siano ancora in vita. Come ha dichiarato Banerjee:
“Essere testimone di riconoscimento emotivo spontaneo è ciò che mi convince più di ogni altra cosa del validità del caso”.
Nel facilitare tale riconoscimento, sembra che spesso ci sia all’opera un altro fattore, qualcosa che Banerjee descrive come ” la geografia della reincarnazione”. Gli studi indicano che coloro la cui vita è terminata prematuramente tendono a tornare nella stessa area, attirati, si può supporre, da una sensazione di affari rimasti incompiuti e fame emotiva.
Ciononostante, il registro dei casi di ricordi spontanei di vita passata, per quanto possa essere ben fornito e diligentemente indagato, non può provare la reincarnazione, né potrà mai farlo. Non è un caso che il dottore Ian Stevenson definisca sempre anche i suoi migliori oggetti di studio come “evocativi” della reincarnazione. Scrive infatti:
“Tutti i casi che ho indagato fin qui hanno qualche crepa, alcuni delle crepe molto serie. Una prova della reincarnazione non viene offerta né da un singolo esempio né da tutti i casi investigati, i quali forniscono però un corpus di prove che cresce in quantità e qualità e che evoca la reincarnazione”.
Anche quando il legame con una vita passata e stabilito oltre ogni dubbio e con i più precisi dettagli, nessuno può provare che il bambino con tutte le emozioni e le informazioni fosse una volta la persona che dichiara di essere. Inoltre, esisterà sempre la possibilità che i ricordi dei più piccoli siano stati incoraggiati dalla frode, dalla percezione extrasensoriale, dalla possessione spiritica o dalla memoria nascosta, vale a dire dallo sgorgare di ricordi dimenticati che hanno origine nella vita attuale. Tuttavia queste interpretazioni alternative sono, secondo Stevenson, “un mero esercizio mentale come la reincarnazione stessa, almeno per la maggior parte degli occidentali”.
La possessione spiritica e forse il rivale più verosimile della reincarnazione, ma anche questa teoria sembra decisamente in difficoltà quando si prende in considerazione la prova delle macchie sulla pelle. Stevenson ha esaminato ben oltre duecento macchie sulla pelle di bambini che dichiaravano di essere stati uccisi da proiettili ed armi da taglio, che avevano colpito la corrispondente parte del corpo nella vita precedente. In 17 casi i documenti medici a cui si è avuto accesso, come cartelle cliniche o referti autoptici, stabiliscono che l’individuo nella vita precedente era stato ucciso nel modo descritto.
Come attesta il caso di William George Jr, la violenza non è una componente necessaria perché una macchia sulla pelle costituisca una prova. Anche se quest’esempio ha l’aria di una favola tribale, Stevenson l’ha meticolosamente documentato, intervistando, in occasioni separate, i membri della famiglia, i parenti e gli amici. Tutto cominciò quando William George Sr, un rinomato pescatore della tribù indiana dei Tlingit, in Alaska, cominciando a dubitare della tradizionale credenza della tribù della reincarnazione fece un voto:
“Se c’è qualcosa di vero in questa faccenda della reincarnazione” disse il figlio preferito, Reginald George, “tornerò e sarò tuo figlio”.
Aggiunse che avrebbe potuto essere riconosciuto dalle voglie della dimensione di poco più di 1 cm che aveva: una sulla spalla sinistra, l’altra sull’avambraccio sinistro. Inoltre consegnò il suo orologio d’oro con la promessa di rientrarne in possesso se si fosse reincarnato. Poco dopo, il vecchio morì in mare e appena nove mesi più tardi, il 5 maggio 1950, Susan George diede alla luce il suo nono figlio. Il bambino nacque con due voglie negli stessi posti in cui viene dal nonno, anche se erano più piccole. Non ci fu discussione sul nome da dare al bambino: lo chiamarono William George Jr.
Amici e parenti notarono subito la somiglianza fra il bambino e il nonno. Non solo sembrava una versione più piccola del vecchio, ma camminava anche nello stesso modo e dimostrava una conoscenza precoce delle pesche e delle barche, pur mostrando una paura dell’acqua superiore a quella abituale per ragazzini della sua età. Chiamava la prozia “sorella”, si riferiva a zii e zie come a figli e figlie, e non fece obiezioni quando i suoi stessi fratelli e sorelle lo chiamarono “nonno”. All’età di quattro anni, dopo aver girovagato nella stanza da letto dei genitori, in cui Susan George stava ordinando la scatola dei suoi gioielli, William notò l’orologio d’oro era appartenuto a William George Sr.
“è il mio orologio” dichiara prendendolo. Alla fine con riluttanza, rinunciò alla proprietà. Anche se i suoi ricordi della vita passata si affievolirono col passare del tempo, non smise mai di rivendicare quello che chiamava “il mio orologio”.

Fonte   tratto da http://www.liberamente.co/
Reincarnazioni testimoniateultima modifica: 2014-10-02T16:42:34+02:00da subbuteo63
Reposta per primo quest’articolo